Non sempre guarire fa bene

 

Di Dante Balbo



Sempre di più gli operatori di Caritas Ticino sono confrontati oggi con nuove esperienze di incontro con persone che portano con sé disagi diversi: alcolismo, tossicodipendenza, ma soprattutto quel male di vivere che comunemente chiamiamo disagio psichico.

Per questo nel 2001 abbiamo dedicato la nostra formazione interna a trattare con vari “esperti” i temi accennati sopra.

 

I nostri programmi occupazionali, per disoccupati o persone in assistenza, hanno la pretesa di cercare risposte che vadano al di là del semplice fornire un lavoro alle persone. Per fare ciò, tuttavia, sempre di più abbiamo bisogno di attrezzarci, di capire, di entrare nel mondo oscuro degli affetti, delle motivazioni, dei sentimenti.

Graziano Martignoni, è stato nostro ospite per parlarci di “disagio psichico”. Con parole semplici è stato in grado di dire contenuti da accademia, al punto che in redazione ci siamo detti subito: “Bisogna allargare il cerchio degli ascoltatori, perché quello che ha detto il dottore, è importante, è una bella luce nel labirinto della umana sofferenza.”

Ecco dunque in estrema sintesi il tentativo di ritrasmettere quella comunicazione del noto terapeuta, scusandomi già con lui per l’incompletezza e nella speranza che almeno in un lettore sia suscitata la curiosità e, magari, mutata di un poco la prospettiva di pensiero.

 

 

Lessico famigliare

 

Ormai psichico e disagio sono parole correnti, tanto che quando le usiamo pensiamo di dire tutti la stessa cosa, ma è davvero così?

Chiedete a mia moglie che soffre di vertigini di salire su di un’impalcatura e, ammesso che vi dia retta, scopertine/coprirete una dimensione netta del disagio.

Eppure un muratore che lavora al nostro programma occupazionale, nella stessa situazione potrebbe bersi un caffè o mangiarsi un panino chiacchierando amabilmente degli acquisti della sua squadra di calcio preferita. Ecco che le stesse cose sono disagio per qualcuno e vita ordinaria per altri.

Ma se il disagio soggettivo è comprensibile, proviamo ad entrare in contatto con il termine “psichico” e la cruda realtà della Torre di Babele si renderà immediatamente visibile.

Il bello è che non è vero che è una faccenda di esperti, ne sappiamo in verità tutti qualcosa, ma non appena ci sembra di averlo afferrato ecco che lo “psichico”, sfugge dispettoso ad ogni tentativo di incastrarlo, come l’acqua quando tentiamo di acchiapparla.

 

 

Il diario, il sangue ed il respiro

 

Tutti sappiamo che c’è, conosciamo il nostro “psichico”, potremmo definirlo la nostra interiorità, sapiamo che c’è un luogo, dove siamo consapevoli di noi, sappiamo se stiamo bene o male.

Il diario, quel gioco serio che molti adolescenti intraprendono e qualche adulto continua è una buona maniera visiva, immediata, di descrivere questa autocoscienza di sé, questo dialogo con sé che non ha bisogno di altri per attivarsi.

Ma l’interiorità non è un posto, né un organo, anche se come un organo si comporta, respira, ha bisogno di nutrirsi, di ossigenarsi, di vascolarizzarsi.

Quante volte gli adolescenti ci dicono, “Mi sento stretto nella mia pelle, mi sembra di soffocare”.

Quante volte se incontriamo un anziano triste e depresso, ci rendiamo conto che spesso non ha ossigenato la sua interiorità, l’ha lasciata progressivamente morire, aspettando troppo per nutrirla, per darle il respiro di cui aveva bisogno.

Naturalmente non è solo una questione interna, noi siamo sempre in relazione con l’esterno, con gli altri, con il mondo.

In questo dialogo conta molto il tempo, il tempo in cui soffriamo, in relazione al tempo in cui siamo felici.

Come un’ostrica la nostra interiorità tenderà a chiudersi quando è minacciata, quando sta male, mentre si aprirà alle soddisfazioni, all’accoglienza, alla felicità.

 

 

Fra malattia e diversità

 

Ora che abbiamo tracciato gli orizzonti di ciò che intendiamo per psichico, veniamo all’altro termine del nostro discorso: il Disagio.

Nel nostro corpo, nel rapporto con la realtà, nella nostra mente e nell’area della trascendenza (vedi riquadro a pag 29), abbiamo bisogno di equilibrio, di soddisfazione, di percezione di benessere, che naturalmente non ha nulla a che fare col Nirvana.

Quando in una delle dimensioni dell’interiorità qualcosa non va, si avverte il disagio, di cui l’angoscia è un segnale importante.

Ma qui cominciano i problemi, perché quello che per me è assolutamente inaccettabile e angosciante, per un altro è la sua norma, il suo equilibrio.

Con questo non si tratta di giustificare tutto o di diventare acritici, anche perché al massimo riusciamo a diventare ipocriti, ma di assumersi una responsabilità importante ogni qualvolta giudichiamo un disagio e la necessità di superarlo.

C’è sempre una scienza psicologica o sociale pronta a riconoscere il disagio, a classificarlo e a darci una giustificazione per cambiare o tentare di cambiare il nostro prossimo secondo i nostri gusti.

La mortalità era altissima fra gli schiavi nelle prime settimane di vita in occidente, anche se nella loro terra erano abituati a condizioni di vita nelle quali un occidentale non sarebbe sopravvissuto che pochi giorni.

Non è casuale l’esempio della schiavitù, perché l’operazione che facciamo rispetto al disagio psichico è in qualche modo coloniale, magari in buona fede, ma pur sempre colonialista.

 

 

Per carità, lasciamo stare Giovanni dov’è

 

C’era una donna, affermata nel suo lavoro, apprezzata per le sue qualità di serietà e precisione, che aveva una strana caratteristica: tutte le sere cenava con il suo amico Giovanni.

Niente di male, se Giovanni fosse stata una persona reale.

Questa donna era in terapia, non per Giovanni, ma per altri suoi disagi.

A un certo punto gli viene prescritto un farmaco e come per miracolo, Giovanni scompare.

Poco tempo dopo questa donna si ammala di un tumore, o meglio, si presentano alcune cellule tumorali nel suo corpo.

Smette di prendere il farmaco, il tumore scompare e… per fortuna, ritorna Giovanni.

Quello che per noi è follia, forse è salvaguardia di qualcosa di molto più grave.

A questa donna è stata tolta la follia di una presenza irreale e ad impazzire sono state addirittura le cellule del suo corpo, a manifestare un disagio molto più profondo, mortale.

 

Osservare dunque l’altro e il suo disagio come una diversità e non necessariamente come una malattia, anche quando come malattia si manifesta, è la condizione per trovare un certo equilibrio di giudizio.

 

 

Fra creatività e catastrofe

 

Quattro sono anche le dimensioni del disagio: la prima è quella del trauma, cioè di quelle condizioni permanenti o passeggere che rompono bruscamente il nostro equilibrio, che ci impediscono di essere sufficientemente flessibili per adattarci alla realtà.

La seconda dimensione è relativa al conflitto. Il conflitto è condizione normale della vita, ma i suoi esiti sono nell’asse che va dalla creatività, dal progetto, alla catastrofe.

Noi a Caritas, a detta del prof. Martignoni, siamo operatori di creatività, propositori di un progetto per i nostri utenti, che li tira fuori dalla catastrofe, dall’esito infausto del loro esistere, perché offriamo loro un modo diverso di vedere la vita.

Dire ad esempio ad un cinquantenne  disoccupato che può ancora lavorare, che il suo lavoro è importante, che può ancora scegliere, che non è vero che ha solo la strada della depressione o dell’invalidità, è muoversi nello spazio della creatività, del progettare, della speranza concreta.

 

Vi sono poi le dimensioni della mancanza e della carenza. La prima riguarda qualche cosa che è effettivamente mancato e non si può più ricostruire, se non gettando dei ponti, delle passerelle, per superare questa mancanza.

La seconda è quella condizione di povertà che disegna un disequilibrio fra le componenti del nostro mondo interno, con troppo o troppo poco di questo o di quell’aspetto: pensate ad esempio ai disturbi alimentari, dove obesità patologica e anoressia in qualche modo si assomigliano.

 

 

Un processo senza imputati

 

C’è una prospettiva distorta del nostro modo di pensare il disagio psichico ed è quella del “perché”.

Se ci sforziamo troviamo senz’altro un colpevole per quello che non va nella nostra vita, magari la mamma, la condizione sociale, il papà, la nostra diversità corporea, le cattive compagnie, la troppa o troppo poca severità dei nostri genitori, degli insegnanti, ecc.

Ma questo non ci porta di solito da nessuna parte, perché è successo tanto tempo fa, i colpevoli o non ci sono più o, magari, non se ne sono neanche accorti e sarebbe inutile recriminare adesso.

Molto più produttivo è invece cercare di capire come le cose funzionano, come pensiamo davanti ad una difficoltà, come affrontiamo un problema.

Si tratta di uscire quindi dalla mentalità del processo, della ricerca di indizi a caccia di un colpevole, per entrare nella logica della ricerca archeologica, per spiegare con la storia il nostro presente.

 

 

La “comunità” terapeutica

 

Ci sono elementi del problema del disagio che riguardano gli specialisti, ma c’è qualcosa che tutti possono fare.

Anzitutto è importante conoscere, sapersi porre in relazione con l’altro e fin qui abbiamo gettato qualche barlume sul livello della conoscenza. Senza questo livello è impossibile esporsi, uscire verso l’altro senza cadere, senza rischiare di colonizzarlo o di illuderlo.

Ma una volta detto questo, c’è un livello al quale tutti coloro che sono minimamente sani, cioè capaci di porsi, possono operare: quello della costruzione di una comunità.

La dimensione comunitaria, cioè del fare insieme, del progettare insieme, dell’imparare insieme è fondamentale per il recupero delle persone e non servono grandi studi o conoscenze psichiatriche per lavorare in questa direzione.

Molte delle persone che si sono ammalate, spesso non sono riuscite a trasformare la crisi in progetto creativo, perché la comunità dentro di loro si è progressivamente frantumata.

 

 

Lavorare! E chi me lo fa fare?

 

Costruire la comunità non significa un generico appello all’aggregazione sociale, alla “comune”, come se bastasse mettere insieme della gente per dire che sono una comunità.

Intervenire in un’ottica comunitaria significa assumersi la responsabilità di dire a un disoccupato che o trova una ragione per lavorare o non troverà più un lavoro.

Quando ci troviamo di fronte ad un disagio la tentazione è quella di riadattarlo, di riportarlo nei canoni della società, a volte in maniera acritica.

E’ vero che un disoccupato deve reimparare a sottostare a delle regole, a riconoscere che c’è una gerarchia, che la logica della produzione ha le sue esigenze, ma se è tutto qui, ha ragione di impazzire, o di cercare di vivere ai margini tenendosi fuori da questo mondo.

O l’intervento sociale è in qualche modo tentativo di iniettare valori diversi nella società oppure è colonizzazione, metodo poliziesco travestito per sembrare meno brutale.

Se una persona riesce a scopertine/coprire dentro la sua crisi un modo diverso di concepire il mondo, avrà molte più possibilità di vero rinnovamento dei cosiddetti normali, che fanno tutto per dovere, per ignavia, per abitudine.

Le persone straordinarie che seguono la storia o che sono così cambiate da illuminare la vita di molti, spesso devono la loro trasformazione ad un momento di profonda crisi, non la negano, anzi la ricordano come una benedizione.

 

 

Quattro luoghi della psiche

 

Il Corpo

Un esempio sorprendente per descrivere il corpo come palcoscenico dell’interiorità ferita è Giobbe, il protagonista di un libro della Bibbia. Lui era un imprenditore, una bella famiglia, case, greggi, buoi, granai e traffici per investimenti un po’ dappertutto.

Poi la vita, con la sua crudezza, perde tutto, si trova senza amici, non per cattiveria, ma perché nel suo giro non riesce più a starci, dato che pranzi da un bue alla volta non ne fa più, né può regalare schiave o tappeti di seta quando va a trovare un vicino. Perde anche la moglie e i figli, tutto il suo impero finanziario va in malora e lo ritroviamo solo, buttato su di un letamaio, con il corpo copertine/coperto di piaghe, visibile segno di tutto il suo dramma.

 

La Realtà

La vita ci viene incontro, con la sua durezza, con la sua implacabilità. A volte, però, non è questa a ferirci ma la totale assenza di significato che ci viene restituita. Pensiamo a chi ha lavorato per trent’anni per un datore di lavoro e che si trova con una lettera in mano in cui gli dicono che per una ristrutturazione dell’azienda è diventato un “esubero”, come un’escrescenza, un porro da cauterizzare, un ramo secco da potare.

Quello che più dispiace non è essere a casa, ma che in qualche modo, nessuno se n’è accorto, che uno ci sia o no, la ditta per la quale hai dato il meglio della tua vita, va avanti lo stesso, indifferente.

 

La Mente

Questo è il luogo dell’interiorità che comunemente chiamiamo psichico, quello spazio in cui l’interiorità si dice, si arrovella, si illumina o si oscura.

 

La Trascendenza

Infine c’è uno spazio dell’interiorità che è quello in cui non ci bastiamo, in cui abbiamo bisogno di un oltre, di un’apertura che ci espanda, che ci sostenga: questo non ha necessariamente nulla a che fare con la dimensione religiosa propriamente detta, che di questo quarto ambito è semmai un’espressione specifica.